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Luglio 1943, la tragedia dei bombardamenti su Foggia raccontanta da uno scrittore-soldato

Foggia – Sono passati 77 anni da quel tragico 22 luglio 1943, un giorno che segnò la triste pagine dell’estate foggiana di quell’orrendo anno scandito dal suono degli allarmi, dai boati delle bombe e dalle tante vittime.

La tragedia dei bombardamenti sulla città Foggia fa parte della storia della nostra città e oggi, più che mai, deve essere ricordata.

Questa volta vogliamo ricordare quel terribile giorno attraverso le parole di uno scrittore-soldato, Luciano Bianciardi, noto scrittore e giornalista che in quell’orribile giorno di luglio si trovava a Foggia come soldato.

Alla fine del gennaio del ’43 venne arruolato e dopo un breve addestramento venne mandato in Puglia, dove il 22 luglio, fu testimone dei terribili bombardamenti che si abbatterono sulla città di Foggia.

Mentre dal cielo cadono le bombe alleate, Bianciardi è chiuso con i suoi commilitoni nella caserma Miale e qui, decide di scrivere una lettera alla sorella Mariagrazia, nella quale prova a raccontarle quello che sta avvenendo. Il titolo del racconto è proprio L’ultima lettera che scrissi a Maria Grazia e siamo riusciti a recuperarlo grazie a Lettere Meridiane.

“[…] Erano trascorse almeno quattro ore dal bombardamento, ma la gente non era ancora uscita dai rifugi e dalle case, le strade erano vuote e silenziose, e sul lastricato risuonavano i nostri passi.

Verso la stazione invece c’era altra musica, perché certi vagoni carichi di carburante e di munizioni avevano preso fuoco e saltavano per aria, sì che a tratti volavano in giro frammenti di ghisa grossi come pipistrelli, e crepitavano fitte le cartucce, come se un branco di mitragliatrici impazzite sparasse in tutte le direzioni.

Non ho mai visto, nemmeno al cinema, una città bombardata così vera come era vera . Foggia quel giorno; ed in effetti non credo che sia possibile riprodurre artificialmente un simile scenario: gli alberi erano tutti mozzati alla stessa altezza, ed anche i lampioni ed i pali dell’elettricità, tagliati netti ad un metro da terra e poi le case sventrate, le macerie sparse per terra, dappertutto, in un disordine così completo che poteva sembrare fatto apposta.

E poi, in mezzo a tutto i morti. Dal mio plotone infatti prelevarono una squadra di dieci uomini, scelti a caso: non scelsero me, ma chiesi di andare in soprannumero, per stare insieme a Mucciarelli, che era dei dieci.

Oltre a noi salì sul camion un maggiore di artiglieria ed un prete, un pretino timido ed inutile, che infatti non fece nulla. E che poteva fare? Gli prese la paura, e poi la sete (era il 22 luglio, a Foggia) e mi finì l’acqua della borraccia. Ogni tanto si provava a benedire qualcosa, ma poi smise, perché non c’era niente da benedire.

Il primo che vidi doveva essere un ragazzo, sedici-diciassette anni: probabilmente fu ucciso mentre fuggiva su di un carretto perché sopra di lui, sventrato, c’era un cavallo. Mucciarelli lo prese per le braccia, ma non riuscì a sfilarlo di là sotto; lo lasciò andare, ma intanto la pelle cotta del cadavere gli rimase attaccata al palmo delle mani.

I morti per bombardamento non hanno nemmeno il colore dei morti veri: diventano gialli e rossicci, proprio il colore della porchetta. Quando sono interi, sono così, ma lì di persone intere ce n’erano poche: spesso anzi restava solo un grosso gomitolo di stracci, carne, sangue e capelli.

Avevamo scardinato la persiana di una finestra, e su quella cercavamo di spingere i cadaveri, con una pala, per poi adoperare la persiana a mo’ di barella. Io, appunto, ero quello della pala: quando vidi gli intestini impastati con l’asfalto che non si spiccicavano, allora mi sentii male e soprattutto ebbi un moto di disprezzo verso me stesso, per quella retorica lettera della mattina, per aver creduto che la morte fosse una cosa da scriverci sopra le poesie. «La solitudine delle sue mani penetrata nel mio silenzio». Trovammo un corpo di vecchio, con sopra una mano di bambino, recisa al polso. Di chi era quella mano?

Più avanti, sul marciapiede, c’erano tre bambini di quattro, sette, dieci  anni, distesi l’uno accanto all’altro. Sollevando la coperta che avevano addosso si vide che l’esplosione li aveva falciati al ventre.

Ed accanto a · loro c’era un uomo che piangeva. Gli altri presero i bambini, uno per uno, per le gambe e per le braccia, e cominciarono a buttarli sul cassone, dove già il mucchio cresceva. Ed il povero padre venne a piangere da me, a raccomandarsi che non gli prendessimo i suoi bambini, o che almeno portassimo via anche lui. Io che dovevo fare?

Raccogliemmo in tutto diciassette cadaveri, e li portammo al cimitero, su di un mucchio già grande che altre squadre avevano formato. Erano centinaia di morti, un mucchio di carne umana macellata e cotta.

Il più anziano fra noi, il caporale Bottai, che era un avvocato di Pisa, ordinò «Attenti» e qualcuno si fece il segno della croce. Io no: perché quella non era morte consacrata, era uno scempio osceno del corpo e dell’anima dell’uomo. Accesi una sigaretta e mi sedei sopra una tomba.

A sera si fece una colletta per comprarci un fiasco d ‘alcool noi undici dei morti: ce ne passammo un po’ sulle mani e sulla faccia, poi si andò a dormire. Li ricordo uno per uno, quei miei compagni del 22 luglio a Foggia: Raul Varreschi, per esempio, ora fa il rappresentante di una casa di cosmetici, e gira sopra un’automobile fatta a forma di tubetto di dentifricio col tappo al posto del fanale.

Potrebbe sembrare un ragazzo allegro, e forse lo è. Ma nemmeno lui si è dimenticato dei morti di Foggia. E lui, come me e come gli altri, non vogliamo che ci siano più le guerre, perché la morte non deve più venire così sozza e schifosa come quel giorno di Foggia”.

Fonte: http://letteremeridiane.blogspot.com

Redazione

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